Il Campo della Sciura

Caratteristiche generali
Dove si trova: Nei comuni di Borgolavezzaro (NO) e di Cilavegna (PV)
Coordinate: Lat. 45°19'4.86 - Long. 8°43'13.61
Estensione: 10 ettari
Anno di avvio: 1991
Proprietà: Burchvif, Comune di Borgolavezzaro, privata
Tipo di tutela: Piano Regolatore Generale del Comune di Borgolavezzaro
Oasi di protezione ai sensi della L. R. Piemonte 4 settembre 1996, n. 70.


In breve
Il Campo della Sciura è un antico "sabbione" o "dosso", testimonianza di una formazione geologica sempre più rara. Pressoché tutti i terreni limitrofi con analoghe caratteristiche sono stati trasformati rendendoli irrigabili e stravolgendone quindi le peculiarità, attraverso l’asportazione delle sabbie che li costituivano. Nella parte più alta dell' Oasi è stato realizzato un querceto puro a farnia (Quercus robur ).
Nella parte più bassa si è instaurata una vegetazione igrofila con la presenza di specie quali la Cannuccia di palude (Phragmites australis), il Salicone (Salix caprea), qualche Ontano (Alnus glutinosa), qualche Nocciolo (Corylus avellana).
Sulla sommità della scarpata che delimita l’area umida verso il Cavo Plezza sono presenti vecchi pioppi euroamericani. Essi sono ciò che resta di un vecchio impianto di pioppicoltura in seguito abbandonato.
Grazie alla falda superficiale che garantisce la presenza di acqua tutto l'anno, è stato possibile realizzare un grande stagno che ospita alcune specie ittiche come la carpa ( Cyprinus carpio) e il luccio (Esox lucius) e avifauna come aironi, gallinella d'acqua (Gallinula chloropus) e anatidi. Oltre allo stagno grande sono presenti tre piccoli stagni che sono utilizzati da libellule e anfibi come le rare rane rosse ( Rana dalmatina e Rana latastei )



L' ingresso dell'Oasi - © Alberto Giè

  
Uno scorcio dello stagno - © Alberto Giè


La parte finale dell' Oasi - © Alberto Giè

  
Il punto panoramico - © Alberto Giè






Il paesaggio della bassa pianura novarese
Il paesaggio agrario che oggi vediamo è il risultato di quella secolare opera di bonifica che ebbe inizio fin dal Rinascimento. La coltura risicola nel Novarese, nel Vercellese ed in Lomellina costituisce oggi l’elemento paesaggistico dominante sebbene esista una quota di fertile terreno agrario lasciato ad altre colture cerealicole ed alla pioppicoltura industriale. Un elemento del paesaggio che, invece, è praticamente scomparso dalla pianura irrigua per lasciare spazio alla risaia è il bosco. Eppure come cita lo storico novarese Dorino Tuniz: “Non dimentichiamo che ancora agli inizi del XVIII secolo la stessa Novara era circondata da una grande striscia boschiva che si estendeva ad occidente della città lungo il torrente Agogna. Ampie zone boscose ricoprivano l’area tra Agognate, Casalgiate, Mosezzo, San Pietro, Gionzana e Ponzana. Una grande macchia boschiva si estendeva poi tra Garbagna, Nibbiola e Vespolate, lungo il corso dell’Agogna, come le stesse antiche carte ricordano con molti toponimi la presenza di zone a bosco, di guadi, di strisce sabbiose e ghiaieti”

I sabbioni
I “sabbioni” o “dossi” sono episodi geologici sopravvissuti, testimonianze di lontane ere geologiche che, al pari di specie rare o rarefatte che vanno scomparendo, meritano di essere tutelati. Questa è stata la filosofia alla base dell’impegno dell’associazione quando si apprestò nel 1991 a dare l’avvio all’iniziativa del Campo della Sciura. E’ importante puntualizzare l’esclusività di queste formazioni geologiche, sopraelevate rispetto ai terreni circostanti, che testimoniano l’azione di modellamento impartito dalla fiumana fluvio-glaciale del Pleistocene e dall’azione esercitata dal vento almeno fino in epoca romana se non oltre.
Dal punto di vista geomorfologico tutta la Pianura Padana è formata da depositi alluvionali incoerenti, costituiti da alternanza di prevalenti litologie permeabili (sabbie e ghiaie) e subordinate litologie impermeabili (limi e raramente argille). L’evoluzione della Pianura Padana è legata alla successione di fenomeni di deposito ed erosione del terreno, conseguenti all’attività fluvio glaciale, che ha portato alla formazione della stessa attraverso il colmamento di un preesistente “golfo marino” che si estendeva dall’attuale mare Adriatico fino ad oltre la città di Torino. Dal punto di vista geomorfologico la superficie terrazzata al centro della porzione occidentale della provincia di Pavia (comprendente la zona della Signora), appartiene al contesto definito come “piana diluviale recente” (Stella A., 1895) o “Livello Fondamentale della Pianura” (Petrucci F., Tagliavini S., 1969). Geologicamente si distinguono due tipi di sedimento: Schematicamente il territorio “Lomellina” è costituito da depositi alluvionali composti da ghiaia e ciottoli derivati dal Pleistocene recente a cui si alternano zone caratterizzate da sabbie e limi del periodo fluviale Wurm. Particolarmente sabbiosi risultano i terreni che fiancheggiano il Ticino e, per strette fasce, i torrenti Agogna e Terdoppio. Riguardo all’origine dei “sabbioni”, ci sono due tendenze di pensiero principali; la prima li considera di origine eolica, la seconda di origine alluvionale. Nell’ambito della stessa Lomellina diversa è la rappresentazione grafica del fenomeno da parte dei vari Autori. Alla fine del Diluvium (Pleistocene) le fiumane depositarono in corrispondenza della zona fra Mortara, Cergnago, San Giorgio, Tromello, Gambolò ed altrove, sabbie fini mescolate a ciotoli. Nel periodo di transizione fra questa idrografia e quella alluvionale (Olocene) i fiumi formarono banchi di sabbia più o meno fine e più o meno mista a ciotoli e si crearono degli argini naturali. Poi cominciarono le opere di erosione e di terrazzamento. Là dove le sabbie depositate erano più fini e formavano plaghe più vaste, s’ iniziò, forse dopo un certo tempo, il rimaneggiamento eolico. Le polveri e le sabbie minute e leggere, se presenti, furono trasportate più lontano. Quelle di grana media furono separate dai ciotoli, accumulate e modellate in dune in un lento processo per periodi lunghissimi. Dove invece le sabbie costituivano soltanto dei banchi o dei cordoni, l’azione eolica, se si verificò, fu certamente minore e ben presto cessò per la protezione della vegetazione tutt’attorno. Il rimaneggiamento eolico, che non sembrerebbe presupporre condizioni climatiche nettamente diverse dalle attuali, è continuato perlomeno fino all’epoca romana e forse fino alle successive opere di bonifica idraulica ed agraria.


L’origine del toponimo
Il toponimo “Sciura”, corrispondente all’italiano “Signora”, ha origini antiche e, seppur in modo non sempre identico, compare in diversi documenti fin dal secolo XII. In una pergamena del 1100 in cui il prevosto di Cilavegna determina le terre sulle quali ha diritto di decima, compare infatti: vinea que dicitur seniores. E’ possibile affermare che tale località coincide con quella attuale in quanto i terreni del prevosto di Cilavegna confinavano, come si legge nel documento, con le località denominate Budrium Cembelline, Peregallo e Via de Cilavegna che sono vicine al Campo della Signora. E’ difficile stabilire se il termine seniores possa significare “signori” (padroni) o “Signore”,in senso sacro, indicando quindi terreni appartenenti alla Chiesa. Anche nelle Consignationes del 1347 compare una citazione del toponimo quando il Presbieter Antonio de Bolexano, rector et benefitialis Sanctorum Petri e Bartholomei di Borgolavezzaro elenca le terre in suo possesso descrivendole: petiam terre arabilis ubi dicitur ad Vallem de Signore. Nei secoli successivi il toponimo si è trasformato da Vallem de Signore (val dal sciur) in Sciura ed è stato tradotto e indicato in catasti successivi con il nome Signora Nel Quinternetto de’ Beni Civili di Borgolavezzaro del 1600, conservato nell’ Archivio di Stato di Novara, compare il toponimo alla Signora, ossia in via di Gravellona e ancora alla Signora, poco distante dalla strada di Gravellona. Il toponimo è tuttora vivo ed in uso ed è stato conservato da Burchvif per individuare quest’Isola di Natura nella convinzione che anche questo sia un modo per conservare il legame con le nostre radici.

L’area del Campo della Sciura
L’area, in parte incolta da anni, è testimonianza via via più rara di queste particolari formazioni geologiche. Pressoché tutti i terreni limitrofi con analoghe caratteristiche sono stati rapidamente trasformati rendendoli irrigabili e stravolgendone quindi le peculiarità, attraverso l’asportazione delle sabbie che li costituivano. Il terreno sul quale si è intervenuti ha oggi l’estensione di circa 10 ettari e possiede molte delle caratteristiche dei sabbioni che lo rendono prezioso. I primi interventi di recupero ambientale hanno seguito un ben preciso programma e si sono sviluppati secondo un progetto originatosi, in parte, dalle osservazioni delle vegetazioni che si erano sviluppata in zona in assenza del disturbo antropico ed, in parte, dai rilievi quantitativi e qualitativi compiuti su dossi ben conservati nei vicini comuni lomellini di Cergnago, San Giorgio e Cilavegna. I terreni sono stati acquisiti all’iniziativa nei più diversi modi: uno è stato donato all’associazione, un altro è il frutto di un comodato, altri sono stati presi in affitto, altri ancora sono oggetto di una convenzione con il Comune di Borgolavezzaro; la parte più consistente è stata acquistata grazie anche al prezioso contributo della Fondazione della Comunità del Novarese che ha finanziato la metà di un importante acquisto. La vegetazione che ricopriva l’area era sostanzialmente riconducibile, in origine, a tre diverse tipologie: il robinieto (Robinia pseudoacacia), il pioppeto industriale (in parte abbandonato e non più oggetto delle consuete cure agronomiche), la zona umida. Vi era, e vi è, poi, anche un bel tiglieto (Tilia platiphillos), a sesto d’impianto regolare, che mostra, quindi, tutta la sua artificialità, costituito da una sessantina di individui. Circa la metà degli esemplari è stata a poco a poco diradata fino ad ottenere l’attuale consistenza che è di una trentina di esemplari dell’età approssimativa di trent’anni. Il lavoro di diradamento ha consentito sia di dare maggior spazio vitale ad ogni singola pianta e sia di ridurre, almeno parzialmente, “l’artificialità” dell’impianto.

Quale modello di gestione
Così come sotto le robinie anche tra il pioppeto incolto, mancando da parecchi anni le attenzioni colturali, si erano sviluppate piante spontanee di preciso significato ecologico: in aderenza alla potenzialità della vegetazione crescevano piantine di Farnia (Quercus robur), di Biancospino (Crataegus monogyna), di Nocciolo (Corylus avellana), di Prugnolo (Prunus spinosa), di Berretta da prete (Euonimus europaeus), di Ligustro (Ligustrum vulgare), di Felce aquilina (Pteridium aquilinum) ed una notevole quantità di Rovo (Rubus sp.). Ciò dimostrava che, in assenza della infestante Robinia, il querceto a Farnia avrebbe colonizzato spontaneamente questi terreni. Sulla scorta, quindi, di queste osservazioni e dopo esserci consigliati, come spesso è accaduto, con l’illustre botanico Prof. Francesco Corbetta, ci si è posti, per la parte più rilevata ed asciutta, l’obiettivo finale della ricostruzione del querceto puro a farnia.

Modalita’ operative
In ogni intervento si è sempre cercato di scompaginare il meno possibile il terreno conservando lo strato protetto dalla cotica erbosa che si era venuta formando negli anni di riposo; talora si è consentita la crescita, dalle vecchie ceppaie, dei polloni di pioppo più vigorosi (l’azione di copertura esercitata dalla loro chioma si è dimostrata preziosa, infatti, in una fase iniziale e transitoria); si sono messe a dimora ghiande e piante di Farnia, piantine di Biancospino e Nocciolo, di Ligustro, di Berretta da prete e di Caprifoglio. In queste operazioni si sono rispettate densità e proporzioni di un lembo di querceto su sabbione che si trova, ben conservato, nei pressi di Cergnago (PV) che è stato il modello di riferimento. Per la parte relativa al robinieto si sono liberate dai competitori (robinie, appunto, e rovi; talora dai sambuchi) le piccole piante di Farnia e Biancospino già presenti qua e là nel sottobosco. Altrettanto dicasi per Biancospini, Noccioli, Prugnoli e Sambuchi adulti (alcuni di questi esemplari di ragguardevoli dimensioni). Poi, si sono create piccole radure con lo sfoltimento delle robinie adulte e lo sradicamento delle ceppaie: alcune di queste radure sono rimaste tali mentre in altre sono state messe a dimora le già citate essenze. Si sono anche aperte stradine di servizio che oltre a consentire il passaggio dei mezzi costituiscono la trama dei sentieri usata per le visite. Un bel tabellone didascalico in legno, collocato all’ingresso, ha lo scopo di illustrare ai visitatori cosa si sta realizzando in questo luogo.

Il recupero della zona umida
La parte più bassa, che negli anni precedenti era stata utilizzata come cava di prestito per l’estrazione di sabbia, era stata in seguito utilizzata come discarica comunale per inerti. Ciò aveva comportato il successivo parziale riempimento. Fortunatamente il deposito di questi materiali non ha coinvolto tutta l’estensione. Ciò ha consentito l’instaurarsi di una vegetazione igrofila (perché più a contato con la falda superficiale) in una vasta area dov’era rimasta una depressione e l’affermarsi di vegetazione pioniera, con la presenza di specie quali la Cannuccia di palude (Phragmites australis), il Salicone (Salix caprea), qualche Ontano (Alnus glutinosa), qualche Nocciolo (Corylus avellana) oltre alle solite infestanti, tra le quali l’onnipresente Robinia, accompagnata da Rovo in quantità. Sulla sommità della scarpata che delimita l’area umida verso il Cavo Plezza è da citare la presenza di annosi pioppi euroamericani; essi sono ciò che resta di un vecchio impianto in seguito abbandonato ed acquisito all’iniziativa attraverso regolare atto di compravendita. Gli obiettivi di recupero ambientale dell’area si sono articolati essenzialmente sull’utilizzo degli elementi naturali presenti. Il più importante di essi è la presenza di una falda permanente abbastanza superficiale, caratteristica costante in questo lembo di pianura novarese, che ha avvalorato la vocazione dell’area ad ospitare uno specchio di acque sorgive dotato di relativo cavo scolmatore, realizzato in trincea, posto all’estremità meridionale dello stagno con lo scopo di assicurare il deflusso delle acque che scaturiscono dalla falda.


Maggio 1999 - © Giambattista Mortarino

  
Maggio 1999 - © Giambattista Mortarino


Maggio 1999 - © Giambattista Mortarino

  
Maggio 1999 - © Giambattista Mortarino





Progetto di oasi naturale didattica
La scelta di realizzare un’isola di natura al Campo della Sciura risponde ad una motivazione assolutamente logica se consideriamo che normalmente si dovrebbero istituire oasi o zone protette là dove esistono aree naturali con specie faunistiche o floristiche da salvaguardare. Tale scelta trova qui anche una sottolineatura perché quest’area è inserita in un vasto territorio estremamente povero di risorse naturali, su terreni costituiti da formazioni geologiche in via di scomparsa, a stretto contatto con il cavo Plezza, il più importante fontanile della Bassa Novarese e della confinante Lomellina. Ci troviamo in un’area che conserva ancora piccoli, relitti popolamenti di specie vegetali significative e caratteristiche come Coryneforus canescens. I criteri progettuali applicati sono stati quelli canonici dell’Architettura del Paesaggio: movimenti terra e successivi modellamenti delle superfici, progettazione del verde accelerando l’evoluzione naturale di sostituzione della vegetazione più povera ed in molti casi infestante, con una più ricca e vicina alla fase climax caratteristica della zona. Un grosso investimento iniziale è stato impiegato esclusivamente per i movimenti terra che sono stati preliminari rispetto alle altre fasi di attuazione del progetto come percorsi, piantumazioni e didascalizzazione. Il nucleo centrale del progetto è stato rappresentato dall’area destinata alla costruzione dello stagno. E’ stato sbancato il terreno della parte di area sortumosa che era ricoperta da una fitta vegetazione igrofila come Cannuccia di palude e Tifa fino a raggiungere l’affiorante falda e garantire un livello minimo medio di acqua intorno al metro. La terra derivante da questi sbancamenti è stata riportata all’esterno dello stagno ed è stata utilizzata per rimodellare le rive in modo naturaliforme con diverse pendenze ed anse e per la realizzazione di un punto rilevato e leggermente avanzato nello stagno con le funzioni di punto panoramico. Una piccola parte delle rive è stata sistemata in modo da creare tratti di parete scoscesi e privi di vegetazione allo scopo di favorire la nidificazione di due specie rare e dai colori spettacolari: il Martin pescatore (Alcedo atthis) ed il Gruccione (Merops apiaster) che, in pareti sabbiose e verticali come queste, scavano abitualmente i loro cunicoli al termine dei quali si trovano le camere di covata. Entrambe le specie hanno risposto all’appello: il Martin pescatore nidifica ormai da alcuni anni; coppie di Gruccione sono state osservate passare e ripassare in volo sul laghetto. Contemporaneamente allo scavo dello stagno si è provveduto alla realizzazione di un canale scolmatore della lunghezza di una ventina di metri, impiegando le tecniche costruttive derivate dall’ingegneria naturalistica al fine di minimizzare l’impatto causato dagli scavi e consolidare le ripide scarpate che si sono andate formando. Questo collegamento del nostro laghetto con il Cavo Plezza ha fornito il destro a diverse specie di organismi acquatici per risalire la lieve corrente ed insediarvisi. Tra Lucci , Cavedani, Tinche, Scardole…sono presenti anche rarità come la Lampreda, il Gambero di fiume alloctono ed il Gambero della Luisiana. Per l’attraversamento di questo piccolo canale si è fatto ricorso alla costruzione di un ponticello in legno di semplice fattura.

Le libellule
Quando nella Bassa Novarese si parla di sciura-sciurot ci si riferisce a certi leggiadri insetti che, soprattutto fino a qualche decennio fa, ingentilivano campagne e paesi, campi coltivati e cortili. Per chi non fosse avvezzo ai termini dialettali, la sciura-sciurota in questione è, come si diceva, un meraviglioso insetto, purtroppo assai meno frequente di un tempo, la libellula. Nelle attività tradizionali, le libellule o, scientificamente, gli Odonati, sono sempre stati presenti, in quanto hanno accompagnato da sempre la vita di uomini e donne nel pesante lavoro dei campi o nelle faccende domestiche di cortili ed orti. Soprattutto nelle risaie le coloratissime libellule erano numerose ed accompagnavano la fatica delle mondine. Le risaie erano essenziali per entrambe perché rappresentavano il territorio e la fonte di cibo per le prime ed il campo di lavoro e quindi una fonte di reddito, per le seconde. Chi, tra i nati prima degli anni sessanta, non ricorda che bastava alzare un dito al cielo perché vi si posasse una di queste leggiadre “signorine”. Nascoste dietro una bellezza da togliere il fiato, le libellule sono predatori eccezionali, veloci, leggiadri e dai colori cangianti del corpo e nel cristallo delle ali.


© Luca Barba

  
© Luca Barba



Lo studio scientifico delle libellule alla “Signora”
Nelle zone interessate da colture intensive, il problema della conservazione degli Odonati è da ritenere di importanza vitale. Infatti, l’intensificazione dei coltivi, con perdita della biodiversità vegetale e l’impiego di biocidi, influiscono in maniera negativa sulla loro presenza. Tuttavia anche in questi ambienti così sfruttati dall’uomo è possibile salvaguardarne la presenza. Anche per questo motivo Burchvif ha promosso, nel corso dell’estate del 2003, uno studio sulla presenza degli Odonati nell’area del Campo della Signora. La zona in questione si pone, infatti, come interessante “Isola di Natura” tra i campi coltivati e la presenza di numerose tipologie ambientali e la ricchezza del corredo vegetazionale all’interno della seppur limitata area possono ospitare differenti specie di libellule. Infatti la vegetazione svolge un ruolo determinante per la presenza di questi insetti in quanto è condizione necessaria per il compimento del loro intero ciclo vitale. La vegetazione, emergente e sommersa, è un importante fattore che regola la selezione dell’habitat e l’ovideposizione di molte specie di Odonati. Essa assolve, oltre che alle necessità di fornire supporti adatti per lo sviluppo larvale e lo sfarfallamento, anche alle necessità legate alla sosta ed alla difesa del territorio, alla deposizione delle uova, ed anche a funzioni di valutazione più difficile che includono la possibilità di riparo per gli adulti in periodi con situazione meteorica avversa e durante attività diurna e/o riposo notturno e la delimitazione visiva del territorio. Per lo svolgimento di tutte le funzioni vitali degli Odonati il corpo idrico deve essere sufficientemente vario a livello ambientale ed in particolare deve includere un’area esterna con alberi e arbusti relativamente distante dalle sponde, una zona di transizione comprendente erbe alte e, infine, una fascia ripariale di vegetazione acquatica emergente. La zona più distante dal corpo idrico, con vegetazione fitta di alberi e arbusti, è di fondamentale importanza come riparo notturno e durante i momenti di condizioni meteoriche avverse. La zona di transizione, con erbe alte, serve per lo stazionamento ed il riposo nel periodo dei conflitti territoriali e soprattutto per la caccia. La vegetazione ripariale offre, infine, i supporti necessari alla maggior parte delle altre attività svolte dagli adulti. Come si può notare dalla precedente descrizione, la tipologia di sito adatto alla presenza di un buon popolamento odonatologico corrisponde con una buona approssimazione alle caratteristiche del Campo della Signora. La varietà degli ambienti presenti è data dal corpo idrico centrale con acque sia stagnanti sia, vicino all’immissione nel cavo Plezza, leggermente mosse. La zona di transizione tra area umida e dintorni è caratterizzata da erbe alte, periodicamente sfalciate, e da arbusti di altezze diverse fino ad arrivare, al confine della proprietà, ad un pioppeto razionale e ad una cintura di alberi con vegetazione arbustiva molto fitta. In questo ambiente così vario, anche se relativamente giovane, sono state censite 16 specie, di cui 6 appartenenti al sottordine degli Zigotteri e 10 a quello degli Anisotteri. Per un’area di estensione relativamente limitata come quella presa in considerazione è da segnalare la presenza di un numero discreto di specie. E’ da rilevare inoltre il ruolo di “isola” svolto dalla zona in questione che si ritrova immersa in una matrice di monocolture estremamente povere in termini di biodiversità. Di seguito vengono ora elencate le sedici specie censite:

ANISOTTERI
  • Aeshna cyanea
  • Aeshna mixta
  • Anax imperator
  • Cordulegaster boltonii
  • Crocothemis erythraea
  • Orthetrum albistylum
  • Orthetrum cancellatum
  • Sympetrum fonscolombei
  • Sympetrum pedemontanum
  • Somatochlora metallica
ZIGOTTERI
  • Calopteryx splendens
  • Coenagrion puella
  • Ischnura elegans
  • Lestes sponsa
  • Platycnemis pennipes
  • Sympecma fusca


Le libellule sono voraci carnivori in tutti gli stadi della loro vita e si nutrono esclusivamente di prede vive. La larva, infatti, rilevata la presenza della preda attraverso la vista e l’uso di organi chiamati meccanorecettori, la cattura grazie alla presenza di un labbro prensile chiamato maschera, che può essere velocemente protruso verso il bersaglio. Gli adulti individuano la preda (di solito piccoli insetti volanti) principalmente attraverso la vista, molto sviluppata, e la cattura viene facilitata dalla destrezza nel volo e dalla disposizione delle zampe, già rivolte in avanti. Normalmente i maschi maturi si raggruppano vicino all’acqua, dove avvengono copula e ovideposizione. Essi spesso competono tra di loro per difendere il territorio all’interno del sito, che viene frequentemente visitato dalle femmine mature per l’accoppiamento e la deposizione delle uova. Spesso il maschio dopo la copula sorveglia la femmina in deposizione, visto che le lotte per l’accoppiamento sono frequenti e che spesso un maschio “ruba” la femmina all’altro rimuovendo lo sperma del rivale e fecondandola con il suo. Questo comportamento da “sentinella” avviene in vari modi, scortando la femmina in deposizione, sia restandole attaccato, sia volandole in fianco e scacciando tutti i possibili competitori che le si avvicinano. A seconda delle specie e delle circostanze dell’ambiente, le uova possono essere deposte nella vegetazione, su di un substrato, in acqua oppure sul terreno. Il primo stadio, dopo quello di uovo, viene detto prolarva, ancora non in grado né di nutrirsi né di camminare, specializzata per viaggiare (saltando) tra il sito di nascita e il micro-habitat che la ospiterà. Il secondo stadio è quello in cui per la prima volta avviene la nutrizione e la normale locomozione. Il numero totale di stadi, che variano di molto da specie a specie, va di solito da 9 a 15. Durante l’ultimo, i tessuti all’interno della cuticola larvale cambiano trasformandosi in quelli dell’adulto, e questo processo, che dura giorni o settimane, è chiamato metamorfosi. Quando questa viene completata, se le circostanze lo permettono, la larva lascia l’acqua e porta a termine l’ultima muta, divenendo adulto alato. Quando esso vola via, la vecchia spoglia larvale, o esuvia, rimane per qualche tempo ancora aggrappata al supporto da cui la libellula si è appena involata. La libellula adulta passa quindi qualche giorno, a volte settimane, lontano dall’acqua, e nel frattempo diventa sessualmente matura. La fine del periodo preriproduttivo avviene quando l’adulto, che ha ormai acquisito i colori tipici della maturità sessuale, arriva al corpo idrico ed esibisce comportamento riproduttivo. Durante questo periodo, che può durare settimane o mesi, gli adulti di entrambi i sessi passano il tempo tra foraggiamento e riproduzione. Per il maschio l’attività sessuale consiste soprattutto nel localizzare un territorio, farlo proprio e difenderlo dall’attacco dei concorrenti, in modo tale da avere un sito di deposizione da offrire alla femmina per la posa delle uova. Per quest’ultima, il comportamento riproduttivo consiste nello scegliere un partner, copulare e selezionare un sito adatto alla deposizione.


Rane rosse: un progetto per contribuire a salvarle
La creazione e la conservazione di ambienti naturali sono gli obiettivi che Burchvif persegue da sempre attraverso le Isole di Natura. Uno dei meriti di queste realizzazioni è quello di operare in difesa della diversità biologica nei suoi molteplici aspetti tra cui la conservazione e l’incremento del numero di specie vegetali e animali presenti sul territorio. Detto incremento può avvenire in modo del tutto naturale: gli animali possono arrivarci semplicemente volando, camminando, strisciando o nuotando. Altre volte, invece, specie ridotte a popolazioni puntiformi e divenute ormai “invisibili” per diverse cause (distruzione degli habitat, modifica delle tecniche colturali in agricoltura, inquinamento…) possono sperare di fare ritorno in un numero soddisfacente alle terre che appartennero ai loro antenati solo attraverso il ricorso ad uno specifico progetto di conservazione. E’ questo il caso del progetto che ha preso l’avvio nell’inverno del 2000 e si è sviluppato, poi, nel corso degli anni successivi. Si è trattato in una prima fase di accertare la presenza e poi di favorire il consolidamento delle popolazioni di due specie di “rane rosse” e precisamente della Rana agile (Rana dalmatina), della Rana di Lataste (Rana latastei) e del rospetto Pelobate fosco (Pelobates fuscus insubricus).
Il primo stagno per anfibi fu scavato, fino alla profondità sufficiente per intercettare la falda e garantire costantemente circa 40/60 cm. di acqua, nelle immediate vicinanze del laghetto ma perfettamente inserito in un saliceto (S. alba, S. caprea) presente da anni e dotato di un buon strato umico. Si trattò quindi di verificare, dal marzo del 2001, la presenza di ovature appartenenti alle specie in questione che alcune sporadiche ma attendibili segnalazioni davano per presenti nell’area. Ciò che si era ipotizzato trovò, almeno in parte, conferma già dal primo anno: furono infatti contate, ai primi di marzo del 2001, sette ovature di Rana agile. La schiusa delle uova avvenne regolarmente e senza perdite evidenti (si temeva, infatti, la predazione da parte di anatidi ed ardeidi) e, dalla fine del mese di aprile, primi di maggio, le piccole rane, completata la metamorfosi, iniziarono a disperdersi nell’area circostante la pozza in cui si erano sviluppate. Nel successivo mese di settembre, poi, quasi a voler dimostrare che tutto stava procedendo per il meglio, fu possibile osservarne alcune, nel sottobosco dell’oasi, a diverse centinaia di metri da dove erano nate. In seguito sono state realizzate due nuove pozze che possiedono gli stessi requisiti di quella già esistente essendo in grado di garantire sia la presenza di acqua di falda già in febbraio, marzo (che sono i mesi in cui inizia il periodo riproduttivo) e sia l’assenza di pesci, potenziali predatori delle larve degli anfibi che ci interessano.


Lo scavo del primo stagno - © Giambattista Mortarino

  
Lo scavo del secondo stagno - © Giambattista Mortarino


Lo scavo del terzo stagno - © Alberto Giè

  
Una "rana rossa" nel sottobosco - © Giambattista Mortarino


Ovatura deposta da pochi giorni - © Alberto Giè

  
Ovatura con i girini in fase di sviluppo prima della schiusa - © Alberto Giè





Ruvlhenge
Dopo l'acquisto dell'ultima area di proprietà di privati presente al centro dell'Oasi, coltivata a pioppeto industriale, nell'aprile del 2021 si è cominciata la rinaturalizzazione con la modellazione del terreno. Successivamente sul dosso creato è stato realizzato Ruvlhenge, una struttura in legno importante sotto l’aspetto della conservazione e ricca di significati. Ai fini della conservazione della morfologia dei luoghi è stato ricreato un brandello di quello che doveva essere questo territorio prima del massiccio intervento livellatore dell’uomo iniziato nella metà del secolo scorso. Questa era infatti “terä ad val e dos” , una terra ondulata caratterizzata da vallecole in cui talora affiorava la falda e dossi che potevano anche superare i dieci metri d’altezza. Erano costituiti da sabbie leggere, molto fini e di pezzatura uniforme accumulate dal vento al termine dell’ultima glaciazione avvenuta circa diecimila anni fa. E' stata ricostruita una vallecola destinata a diventare una piccola area umida e, con la terra di escavo, un dosso di circa tre metri d’altezza e di 30/35 metri di diametro alla base. La piccola area umida, grazie anche alla escursione della falda, fornirà l’habitat per limicoli e rallidi come la pavoncella, il cavaliere d’Italia, la gallinella e la folaga. Il dosso è stato circondato al bordo del suo apice da una corona di 12 gruppi di vetuste travi di quercia (infisse per una cinquantina di cm. nel terreno) in corrispondenza delle quali sono state messe a dimora altrettante giovani farnie. Lo scopo del cerchio di travi è duplice. Da un lato vi è quello di creare un’opera d’arte temporanea capace di stupire il visitatore e dall’altro vi è quello di conservare il coleottero Lucanus cervus, il cervo volante che tutti conosciamo anche se, da tempo, non si concede alla nostra vista. In seguito, poi, tra dieci o forse quindici anni quando le travi si disgregheranno, le giovani farnie avranno assunto una dimensione di alcuni metri e potranno crescere, rimpiazzare il cerchio di vecchie travi e durare nel tempo per centinaia e centinaia di anni. Al centro del cerchio di querce è stato installato un monolite di serizzo che reca inciso il motto di Burchvif “int i milä ann”, “nel millennio” che sta ad indicare che il lavoro dell’associazione non si esaurisce nel breve termine, ma opera per un ideale che si sviluppa nel tempo. Anche le dodici querce saranno, quindi, le testimoni del messaggio che Burchvif ha inciso sul monolite. Esse infatti potranno vivere diverse centinaia di anni portando con se il nostro messaggio di impegno per la natura e di amore per la nostra terra…alla deriva del tempo.


Il progetto - © Archivio Burchvif

  
Il progetto - © Archivio Burchvif


L' area dopo il taglio del pioppeto - © Andrea Rutigliano

  
L' area dopo il taglio del pioppeto - © Giambattista Mortarino


Trasporto delle travi - © Mariacristina Contri

  
Installazione delle travi - © Mariacristina Contri


Irrigazione delle querce appena piantate - © Mariacristina Contri

  
L' installazione al tramonto - © Mariacristina Contri



Conclusioni
Le opinioni dei vari Autori non sono concordi sull’origine dei “dossi” o “sabbioni”, in particolare secondo Boni A. (1947), sembra che essi non abbiano necessariamente un’origine comune ma che ci siano “dossi “ di origine fluviale, come già ammesso da Nicolis E. (1898), avvenuta all’epoca di transizione dall’idrografia diluviale a quella alluviale e “dossi” di origine dovuta al rimaneggiamento eolico (come sostengono Stella A., 1895 e Taramelli T. 1898) avvenuta nel Diluvium recente. Più recentemente gli autori Braga G. e Ragni U. (1969), nelle “Note Illustrative della Carta Geologica d’Italia”, considerano i “dossi” della zona Foglio 58 – Mortara, come alluvioni fluviali prevalentemente sabbiose o limose con debole strato di alterazione brunastro. Nel caso specifico il sabbione del Campo della Sciura fa parte di un antico terrazzo ondulato, molto esteso, prevalentemente sabbioso, alterato per circa 1,5 metri in sabbie ocracee e con uno strato sottostante costituito da sabbie appena cementate e talora con lenti limo-argillose (fluviale Riss). Pertanto, in base ai dati ricavati dalla letteratura il “sabbione” in esame sarebbe da ritenersi di origine fluviale e di età geologica riferita al Pleistocene medio (fluviale Riss) mentre la pianura circostante ai “sabbioni” stessi sarebbe riferibile al Pleistocene recente (fluviale Wurm).

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